Intervista a Luigi Angeletti, Uil/Il sindacato pronto al confronto col governo

Un nuovo modello contrattuale per l'Italia

di Italico Santoro

E' un luogo comune pensare alla Uil e agli altri sindacati confederali come organizzazioni contigue al centrosinistra. Lo ha detto alla "Voce" il Segretario Generale della Uil Luigi Angeletti, dal giugno del 1998 Segretario Confederale Uil. In questo ruolo si è occupato di politiche contrattuali e industriali per i settori dell'industria e dell'artigianato. Il 13 giugno 2000 è stato eletto Segretario Generale della Uil. Attualmente è membro dell'Esecutivo della Ces (Confederazione Europea dei Sindacati), e consigliere del Cnel (Consiglio Nazionale dell'Economia e del Lavoro).

Segretario Angeletti, dopo le elezioni politiche, quelle regionali in Sicilia e in Friuli, nei grandi comuni come Brescia, il centrodestra ha vinto anche a Roma. I tre sindacati confederali vengono considerati – a torto o a ragione – contigui al centrosinistra. Cambia qualcosa con queste elezioni politiche per la Uil?

"La pubblicistica descrive la Cgil, la Cisl e la Uil come organizzazioni sindacali contigue al centrosinistra: si arriva fino all'estremizzazione di scrivere che anche noi abbiamo perso le elezioni. E questa è una rappresentazione deformata della realtà. Noi rappresentiamo delle persone, le rappresentiamo sul serio. I nostri iscritti votano, in proporzione, come tutti gli italiani. Se – come è accaduto nella tornata elettorale del 2008 – la maggioranza degli italiani ha votato per il centrodestra, la maggioranza degli iscritti ai tre sindacati confederali ha anch'essa votato per il centrodestra. Questo accade non da ora. E' successo nel 1994, nel 1996, nel 2001, nel 2006 e anche oggi. Se si fa un'analisi della mobilità del voto, ci si accorge che il ceto più mobile dell'elettorato è rappresentato dai lavoratori dipendenti: nel nord, nel sud e nel centro del paese. Questa situazione obbliga i sindacati ad avere comportamenti coerenti. I governi si giudicano per ciò che fanno e non per il colore. In Italia abbiamo tre sindacati diversi non certo per un incidente della storia. E il fatto che i sindacati siano "sopravvissuti" alla scomparsa dei partiti che li hanno creati, è la testimonianza più concreta che sono riusciti a realizzare una sufficiente indipendenza. Almeno per quanto riguarda la Uil, non si tratta di una conquista degli ultimi anni, visto che ormai supera il decennio. Abbiamo fatto un accordo con il governo Berlusconi nel 2002, accordo che ha suscitato vivaci discussioni nei posti di lavoro. Ma i governi sono scelti dagli elettori e il sindacato si confronta con il governo. Considero patologico il comportamento di un sindacato che ha comportamenti diversi secondo il colore del governo. I governi nascono dalle urne e non nelle piazze".

Una delle critiche che vengono mosse al sindacato e ai suoi rapporti con il governo riguarda lo schema della concertazione. C'è chi sostiene che in questo modo le forze sociali finiscono per esautorare il Parlamento. E chi ricorda che gli esclusi – disoccupati in primo luogo – non hanno voce al cosiddetto tavolo decisionale. Queste obiezioni hanno un fondamento?

"Potrei aggiungere un'altra obiezione. I nemici della concertazione hanno detto che gli iscritti al sindacato votano due volte: per eleggere il Parlamento e per eleggere i propri rappresentanti sindacali. Questo sarebbe vero se la concertazione fosse una politica alternativa. Ma non è così. Quando il governo fa una trattativa con un soggetto privato è in pratica autorizzato dalla maggioranza del Parlamento. Quindi non c'è una sovrapposizione di responsabilità. Il vero problema alla base di una concertazione distorta è quando il governo dà l'impressione di subire dal sindacato dei diktat che non condivide. La concertazione non deve sostenere i diritti di veto, né abbiamo mai rivendicato un diritto di veto. I veti sono determinati dall'atteggiamento di chi li subisce e non da chi li mette in pratica".

Ma veniamo ad altre questioni, ad esempio la politica economica del nuovo Governo. Tra le priorità – a quanto pare – dovrebbe esserci la detassazione degli straordinari. In ogni caso, per evitare pericolose tensioni inflazionistiche, l'idea è quella di legare gli aumenti salariali agli incrementi di produttività. Qual è la posizione della Uil?

"In Italia esiste una questione che si chiama ‘bassi salari'. Abbiamo bassi salari perché per lo stesso lavoro percepiamo retribuzioni più basse che in altri paesi come Germania, Francia e Spagna. Secondo noi questa situazione deriva da diversi fattori. In Italia paghiamo troppe tasse sul lavoro dipendente perché esiste il sostituto d'imposta; e quindi la maggior parte del carico fiscale si rivolge ai redditi da lavoro dipendente. Negli anni ‘90 siamo caduti nella trappola di bassi salari e bassa produttività e non siamo ancora usciti da questa situazione. Per noi devono essere ridotte le tasse sul lavoro in generale, incentivando l'aumento della produttività. Senza aumento della produttività l'Italia non potrà conoscere alcuna forma di ripresa economica. In un paese dove si investono 100 euro - e se ne guadagnano 101 - non è vantaggioso investire. E' meglio farlo in altre nazioni dove i ricavi sono superiori. Bisogna sottrarsi all'idea che i bassi salari siano un fattore di incremento della produttività. E' una stupidaggine. Ecco perché oggi è necessario mettere a punto un nuovo modello contrattuale che leghi gli incrementi di salario in termini reali agli aumenti di produttività. Sono queste le questioni sulle quali ci attendiamo un atteggiamento positivo del governo".

Per realizzare questo obiettivo, non pensa che sia necessario fare una riforma del sistema contrattuale basato sul modello nazionale, uno schema che ha bloccato la produttività degli anni ‘90?

"Certamente. I contratti nazionali riguardano centinaia di migliaia di imprese. E servono a garantire l'invarianza del salario reale: garantire cioè che i salari aumentino al pari dell'inflazione. Ma per avere un aumento bisogna legare i salari alla produttività. E questo si può fare solo grazie ai contratti di secondo livello o di territorio".

Non pensa che il superamento del contratto nazionale, con un più stretto legame tra salario e territorio, possa giovare allo sviluppo delle aree più deboli del paese, il Mezzogiorno in primo luogo?

"Nel Sud il costo del lavoro è inferiore rispetto al Nord. Ci sono stati molti accordi che hanno ridotto il costo del lavoro nel sud e in certe aree al fine di facilitare gli investimenti. Ma non hanno mai avuto successo. Basta leggere le analisi che individuano, a livello mondiale, le aree nelle quali investire, che sono in pratica gli stessi studi che vengono utilizzati dalle multinazionali. Nel Mezzogiorno, fra le motivazioni che disincentivano gli investimenti, non compare mai il fattore costo del lavoro. Per molti anni si è pensato che una politica salariale bassa fosse uno strumento utile. La realtà ha dimostrato il contrario. E per quanto riguarda le gabbie retributive, sarebbe molto difficile stabilire chi abbia il diritto di tracciare un confine tra chi prende di più o chi prende di meno. In realtà esistono condizioni diverse, che passano attraverso altri fattori che la sola collocazione geografica. La produttività deve essere stimolata attraverso meccanismi incentivanti. E' in Unione sovietica che si facevano politiche dirette a fissare lo sviluppo economico delle varie zone del paese. E noi vogliamo far ricorso a forme di un dirigismo eccessivo nell'era della globalizzazione?"

Una delle questioni centrali da affrontare è anche quella dell'approvvigionamento energetico. Cosa pensa di un piano organico che punti tra l'altro su centrali nucleari di seconda generazione, sul tipo di quello presentato dal Governo inglese?

"L'Italia è l'unico paese dell'Ocse che importa energia. Tutti gli altri sono autosufficienti dal punto di vista della produzione. Utilizziamo il gas, che è la risorsa più costosa. Il problema dell'energia resta una questione molto importante che non possiamo trascurare. Il nostro è un sindacato industrialista e pensiamo che i problemi possono essere risolti solo con l'accrescimento della ricchezza prodotta. Credo quindi che si debba fare una politica energetica più intelligente diversificando le fonti di energia. E bruciare gas costa caro. Pagare il 30% in più l'energia rispetto ai nostri vicini non significa soltanto pagare la bolletta più alta, ma anche distruggere posti di lavoro. Questo nessuno lo dice. Il problema è quello di produrre tutta l'energia di cui abbiamo bisogno e possibilmente a bassi costi. E fare i rigassificatori significa ridurre la dipendenza dai "tubi". Per quanto riguarda il nucleare non c'è ancora alcun governo che abbia la forza di proporre questo discorso. Il proprietario di una casa vicino ad una centrale nucleare vede scendere il valore della sua abitazione. Per ovviare a questo si può pensare a qualche forma di incentivo per compensare tale tipo di perdita. Ma di fronte a questi problemi deve prevalere l'interesse di milioni di italiani. Peraltro, le centrali di nuova generazione produrranno energia tra 15 anni. Oggi dobbiamo soprattutto entrare di nuovo nella ricerca. Si possono comprare centrali nucleari all'estero - lo può fare l'Enel - e produrre energia attraverso questo sistema. In questo modo le centrali nucleari saranno italiane".

Da qualche tempo il sindacato viene descritto come una casta. Non pensa che un maggior ricorso alle forme di rappresentatività sindacale possa essere anche un modo per cancellare questa immagine?

"E' evidente che il sindacato non gode di buona stampa. Fin da quando ho cominciato a fare il sindacalista mi hanno detto che le cose in Italia non andavano per colpa del sindacato. Certo, anche i sindacati possono commettere degli errori, ma non credo che rappresentiamo una sorta di casta. Anzi, siamo troppo rappresentativi. Semmai, veniamo criticati proprio per questo. Chi è fuori dal sindacato ci chiede di fare quasi un'opera pedagogica e di non adagiarci sulla rappresentanza facendo solo i portavoce di un'opinione, ma di dimostrare anche la capacità di realizzare altro. E forse in questi ultimi anni abbiamo commesso questo errore. Ma il sindacato è un contropotere e non un potere. Reagiamo ad un potere cercando di indirizzare decisioni che prendono altri. In un certo senso, ci adattiamo agli interlocutori che abbiamo di fronte. Lo stesso sindacato fa una politica diversa in base al suo interlocutore. Chi ci critica forse non comprende bene cosa sia il sindacato. Quando difendiamo i lavoratori di Alitalia molti non capiscono e veniamo criticati perché quella politica non è ritenuta giusta. Forse si può criticare il merito di tale politica, ma non dire che non siamo rappresentativi. La gente ci vota. Certo, la nostra rappresentatività deve essere sempre più trasparente e verificabile. Credo che si dovrebbe istituire un sistema affinché i nostri rappresentanti siano votati sempre e comunque. Lo stesso sistema deve valere per gli accordi e anche per gli scioperi, che devono essere decisi a maggioranza. Una minoranza non può paralizzare il sistema pubblico con gli scioperi. Deve essere chiaro però che le norme sulla rappresentatività devono essere pattuite tra le parti e non dal Parlamento, che interviene dopo, ratificando gli accordi. Il Parlamento legifera sul sindacato solo nelle dittature".

Come vede l'arrivo di Emma Marcegaglia alla guida di Confindustria dopo Luca Cordero di Montezemolo?

"Dalla Marcegaglia ci aspettiamo che sia un'interlocutrice seria e affidabile in grado di affrontare bene le relazioni industriali. Auspico che con lei si facciano gli accordi che non siamo riusciti a stringere in questi anni".

(con la collaborazione di l. p.)